A cura di don Eric Oswald Fanou
Una volta ancora, il Vangelo ci mette di fronte alla figura di un uomo ricco. Se la scorsa settimana abbiamo riflettuto sulla parabola dell’amministratore disonesto, oggi la scena è ancora più cruda e diretta: l’uomo ricco che banchettava splendidamente ogni giorno, e alla sua porta, il povero Lazzaro, coperto di piaghe e desideroso solo delle briciole che cadevano dalla sua tavola. L’abitudine alla sofferenza crea abisso di separazione.
Il Vangelo è straordinariamente laconico su come i due siano giunti alle loro condizioni. Non ci viene detto come il ricco abbia accumulato le sue fortune – forse con onesto e duro lavoro. Non sappiamo perché Lazzaro fosse nella miseria – forse sfortunato, malato, o vittima delle circostanze. Il punto cruciale non è l’origine della ricchezza o della povertà. Il punto è la distanza che separa l’uno dall’altro.
Potremmo dire che Lazzaro, sebbene fosse misero di beni materiali, era ricco di una profonda dignità e, possiamo immaginarlo, di amore, nella sua sofferenza.
Il vero misero, era l’uomo ricco. Non a causa dei suoi banchetti, ma per la sua cecità. Si era abituato alla sofferenza di Lazzaro. La sua presenza, il suo dolore, le sue piaghe, erano diventati un elemento del paesaggio, un rumore di fondo della sua vita agiata. Per lui, Lazzaro non era un fratello, non era una persona da aiutare, ma solo un servitore potenziale per eseguire ordini (“Manda Lazzaro…” dice il ricco dall’aldilà). Questa è la trappola più subdola per tutti noi: l’abitudine alla sofferenza degli altri.
L’abitudine ammazza la fantasia di un cuore che pure vorrebbe commuoversi davanti al dolore. Quando vediamo troppe volte la stessa ingiustizia, lo stesso degrado, la stessa miseria – nel mondo, nella nostra città, persino nella nostra famiglia – corriamo il rischio di chiudere gli occhi. L’attenzione diventa inesistente. Diventa per noi accettabile che esista chi vive senza dignità. Ma Dio ci ricorda che tutti abbiamo diritto alla felicità, ad una vita degna, non solo della nostra. Non possiamo lavarci le mani e dire: “Sono affari suoi”.
In questa settimana di festa e sagra per il nostro patrono, San Luigi Gonzaga, troviamo un faro. San Luigi era un uomo nato ricco, destinato alla corte e alla grandezza del mondo. Eppure, ha rinunciato a tutto ciò che era suo di diritto per dedicare la sua vita agli emarginati e agli ultimi, specialmente agli ammalati di peste. San Luigi ha scelto di non abituarsi alla sofferenza. Ha scelto di vedere e di agire, trasformando la sua ricchezza di nascita in una ricchezza di servizio e di amore. La sua grandezza non è stata nel ricevere onori, ma nell’attenzione che ha dato a chi non ne aveva.
L’insensibilità a ciò che è male, l’indifferenza che permette alla miseria di esistere indisturbata alla nostra porta, è già l’inferno. L’inferno non è solo fuoco e tormento, ma è la condizione di chi è totalmente separato dall’amore e dalla compassione.
Chiediamo oggi la grazia di Dio: che ci doni un cuore nuovo, un cuore che si commuove e che si indigna di fronte all’ingiustizia. Ci aiuti a superare la nostra indifferenza e a impegnarci concretamente, come San Luigi, per la felicità collettiva, dove nessuno sia più costretto a desiderare solo le briciole della nostra tavola. Amen. Buona domenica e buona festa di San Luigi.

