Category Archives: Vangelo della Domenica

Pentecoste 2025

L’Amore che Dona Tutto

Gv 14,15-16.23b-26

A cura di don Eric Oswald Fanou

Oggi, Pentecoste 2025, celebriamo la discesa dello Spirito Santo sui discepoli. Nel Vangelo, Gesù, dopo aver donato la propria vita, promette e concede un dono divino che procede dal Padre e dal Figlio a chiunque scelga di stabilire con Lui una sincera relazione d’amore. Così, in definitiva, il Figlio ha dato se stesso e tutto ciò che possiede. L’amore vero, infatti, non conosce riserve.

Nella storia del popolo di Dio, questa festa non rappresenta la prima volta in cui lo Spirito di Dio è sceso sugli esseri umani. Ci sono numerose occasioni nell’Antico Testamento in cui uomini scelti sono stati colmati del dono dello Spirito di Dio. Erano individui scelti e destinati a una funzione specifica: profeta, sacerdote, giudice, re… E già in quel contesto, lo Spirito si mostrava libero di operare al di là degli schemi religiosi dell’epoca, come ci ricorda la vicenda di Eldad e Medad. Nonostante ciò, la Pentecoste porta con sé delle significative novità. Vorrei evidenziarne alcune.

Con il dono dello Spirito a Pentecoste, quando tutti i discepoli erano riuniti a Gerusalemme, comprendiamo che lo Spirito Santo è destinato a tutti i credenti in Cristo, non più solo ai leader religiosi o per una funzione specifica. È destinato a permeare la vita di ciascuno di noi, per aiutarci a perfezionare il nostro amore per Cristo e per il prossimo. Senza l’aiuto dello Spirito, nulla è senza macchia. Tutti i buoni propositi, i progressi che ci aiutano a vivere un amore pieno per Dio e per gli altri, sono opere dello Spirito Santo.

L’effusione dello Spirito Santo è la prova definitiva che Gesù non ha trattenuto nulla nel suo amore per noi. Ha dato tutto. E ci invita a fare altrettanto: a donare noi stessi non parzialmente, ma pienamente. Agiamo parzialmente quando riteniamo scomodo aprire ogni angolo della nostra vita alla sua luce e quando ci pensiamo autosufficienti, o quando viviamo i nostri dispiaceri come se fossimo soli. L’amore sincero non fa riserva di nulla. Ce lo dimostra anche l’esperienza umana dell’amore.

Quanta illimitata disponibilità mostrano i genitori (veri) a sacrificare tutto per i propri figli! Il dono generoso e totale di sé e di tutto ciò che si possiede è una caratteristica distintiva dell’amore perfetto. Nell’amore perfetto, il rischio non spaventa. Quanti coniugi hanno donato un proprio organo per salvare l’altro? Quando la pienezza dell’amore viene meno, subentra la cautela, la riserva prudente. Ci si consacra a Dio con “un piede fuori”, si entra nel matrimonio già prevedendo la possibilità del divorzio… In sintesi, si cerca di non rischiare tutto.

Possa lo Spirito Santo donarci la forza di sostenere i sacrifici che generano il nostro amore per Lui e per gli altri. Buona festa di Pentecoste.

6a domenica di Pasqua /C

Il perdono nel nome di Cristo

Lc 24,46-53

A cura di don Eric Oswald Fanou

In questa domenica, in Italia si celebra l’Ascensione del nostro Signore Gesù. Nel Vangelo, dopo aver ricordato ai discepoli di aver liberamente compiuto le Profezie su di Lui, Gesù afferma il perdono dei peccati nel Suo nome per coloro che si convertono. I discepoli, con la forza del Signore, sono chiamati a essere testimoni di questa novità nell’opera della salvezza. Convinti da ciò che hanno udito, i discepoli vanno al Tempio per glorificare Dio. Cristo porta l’umanità rinnovata nel seno di Dio. In Lui è garantito il sacrificio perfetto per il perdono dei peccati.

Nel Vangelo odierno, Gesù appare di nuovo ai suoi discepoli. Nulla nel racconto ci dice che fossero consapevoli che sarebbe stata l’ultima apparizione. Ancora una volta, ripete un brano della Scrittura che Lo riguarda: “il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel Suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati”. Aveva citato lo stesso brano in un’altra occasione ai discepoli di Emmaus. Questa ripetizione fa intravedere che i discepoli fossero ancora meno convinti della salvezza in Gesù Nazareno. Può darsi che qualcuno abbia pensato che bisognasse aspettare un altro Messia. Per esempio, ancora oggi ci sono Ebrei che continuano ad aspettare il Messia, a differenza degli Ebrei messianici. Quindi, fino all’ultimo momento, Gesù dimostra di essere il Messia annunciato e chiarisce il tipo di salvezza che Gli appartiene: sconfiggere il principe dei peccati e non fare una guerra armata all’imperatore romano, come pensavano in molti.

Il peccato viene definito una ribellione contro il Creatore. Peccare significa non corrispondere all’immagine impressa su di noi. Infine, il peccato è una ribellione contro sé stessi. Gli effetti di questa ribellione si fanno sentire in qualsiasi cuore, anche nel cuore di chi non crede o crede nel nulla. Questi effetti sono, per esempio, il dispiacere di aver offeso l’altro, il senso di colpa di non aver mantenuto le promesse, la tristezza dell’incoerenza e della menzogna e così via.

Prima di Gesù, per ottenere il perdono dei peccati, si sacrificavano animali. Ci ricordiamo del giorno del Grande Perdono (Yom Kippur). I sacrifici degli animali bastavano per avere la coscienza a posto. Questi espiavano i peccati, ridavano la purezza e restauravano l’alleanza. E molti lo facevano senza per forza un coinvolgimento morale. Si capisce perché i Salmi e i Profeti insistevano sul cuore contrito al posto del sacrificio.

Gesù mette decisamente fine al sacrificio degli animali per il perdono dei peccati, non per la mancanza di un luogo (il Tempio) che è stato distrutto, ma perché il tempio del Suo sacrificio è il cuore dell’uomo. E il sacrificio è l’impegno della propria vita ad assomigliare a Gesù nelle scelte quotidiane. Vivere così costa, si sente la fatica. Questa fatica Gesù l’accoglie per renderla un sacrificio perfetto davanti al Padre. Ed è l’unico vero uomo in grado di presentare un sacrificio perfetto. Chi accoglie Cristo nella propria vita viene generato a vita nuova. Non ha più niente da temere. Ed è questa la meraviglia da testimoniare al mondo che non crede. Con Gesù, il perdono esce dai tempi dei sacrifici animali per essere alla portata di tutti. Gesù torna al Padre perché “tutto è compiuto”. Il resto è il tempo della raccolta, che significa consegnare la vita a Gesù con fiducia e godere della gioia della riconciliazione con sé stessi e, dunque, anche con Dio. Possa la grazia di Dio aiutare alla comprensione del grande dono che ci ha fatto. Buona festa dell’Ascensione. Don Eric Oswald FANOU

6a Domenica di Pasqua /C

Amore e regole

Gv 14,23-29

A cura di don Eric Oswald Fanou

Il Vangelo di Giovanni, in particolare il capitolo 14, risuona con un’affermazione centrale e profondamente significativa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola.” Questa frase, ripetuta più volte, non è solo un monito, ma la chiave per comprendere la natura della relazione tra l’uomo e Dio. Il Vangelo odierno arricchisce ulteriormente questo concetto, rivelando una serie di promesse che scaturiscono da questo amore obbediente: la promessa di una profonda comunione con il Padre, l’invio del Paràclito, lo Spirito Santo, e l’assicurazione del ritorno al Padre, il rilascio del dono prezioso della pace. È evidente, da queste parole, che lo Spirito Santo ha un ruolo cruciale: purifica il nostro amore, rendendolo non solo sincero, ma anche gradito al Signore. In definitiva, ciò che emerge con forza è che, anche l’amore ha bisogno di regole.

La risposta all’amore di Gesù, infatti, non è un’adesione passiva, ma un atto che stabilisce un legame dinamico e vivo. Questo legame domanda lealtà a un patto, a un sentimento che è espresso reciprocamente e scambiato. Quando Gesù parla dell’osservanza della sua parola da parte di chi lo ama, egli sottolinea come questa parola, che è il cuore e il contenuto dell’alleanza stretta con Lui, diventi intrinsecamente la parola stessa di colui che lo ama. In qualsiasi contesto, amare significa sempre e comunque entrare in una comunione che è regolata. Le regole non hanno il potere di comunicare l’amore, non possono infonderlo o crearlo; tuttavia, l’amore ha bisogno delle regole per sopravvivere e prosperare. Non esiste alcuna forma di unione, autentica o duratura, dove si possa agire arbitrariamente, facendo “ciò che si vuole” senza alcun principio guida. Anche le unioni che si definiscono “libere” o le solidarietà, persino quelle che potremmo considerare “cattive” o deviate, necessitano di un minimo di principi per poter sussistere. Quando questi principi fondamentali vengono meno, la pace – anche quella più effimera e relativa, va in frantumi, lasciando spazio al caos e alla disarmonia.

Il nostro amore per Gesù, per quanto profondo e sincero possa essere, non sarà mai, per sua stessa natura, pari all’amore smisurato di Cristo per noi. È proprio per questa intrinseca differenza che il nostro amore ha una necessità costante e impellente di essere purificato in ogni istante. Questa purificazione avviene non per nostro merito o forza, ma per mezzo dello Spirito Santo. È lo Spirito, infatti, che con la sua grazia incessante, consacra ogni offerta della nostra vita, permettendoci di accogliere e vivere pienamente la parola del Signore. Ed è sempre lo Spirito Santo che, nella sua infinita saggezza, ci consente di scoprire ancora oggi la bellezza e la profondità di quella parola, rivelandone significati nuovi e sempre attuali. Per questo, in questo giorno e in ogni giorno, siamo chiamati a invocare spesso lo Spirito Santo, chiedendogli con fiducia di infonderci la forza necessaria per rimanere fedeli e leali all’amore incondizionato di Dio per noi. Buona domenica.

Quinta Domenica di Pasqua /C

L’amore eucaristico

Gv 13,31-33a.34-35

A cura di don Eric Oswald Fanou.
Il racconto del Vangelo ci porta all’Ultima Cena. Giuda esce dalla tavola per completare il suo tradimento. Gesù è ben consapevole della sorte che lo attende, eppure parla di glorificazione e poi invita i suoi discepoli ad amarsi gli uni gli altri. Da questo loro amore Lo renderanno presente al mondo. L’amore dei credenti tra di loro è un atto eucaristico. L’uscita da questo legame rende vulnerabili.
All’Ultima Cena con i suoi discepoli Gesù lascia il suo testamento. Durante questa cena istituisce l’Eucaristia con l’invito di fare «questo in memoria» di Lui. Questo dono di sé stesso nell’Eucaristia trova nel Vangelo di Giovanni una sfumatura originale. Giovanni lo esprime nella lavanda dei piedi, cioè nell’abbassamento di Dio fino a farsi servo dell’uomo. All’epoca, tra i compiti del servo c’era la lavanda dei piedi del padrone quando tornava da fuori. L’atto eucaristico per Giovanni è già posto quando Dio si umiliò per diventare uno di noi. L’atto eucaristico diviene concreto quando Gesù si consegnò liberamente al suo traditore nel simbolo del boccone donato a Giuda. Gesù non pone alcuna condizione prima di donarsi alla morte per noi.
Nel gesto del dono del boccone, si è tentato di pensare che Giuda fosse condizionato per il compimento della Scrittura. Se fosse così, sarebbe un insulto alla libertà umana e tutto il resto non avrebbe avuto senso. Giuda aveva deciso liberamente il tradimento nel proprio cuore. Da parte dei presenti alla cena, non avevano legato il gesto di Gesù a un comando. Alcuni presenti alla cena addirittura pensavano che fosse un invito al cassiere Giuda a sborsare per la festa o per i poveri. Ed è dopo gli eventi che il collegamento con la morte di Gesù fu fatto. Capiamo noi che anche Gesù, sapendo tutto, poteva decidere di non consegnarsi a Giuda e di denunciarlo pubblicamente. Invece Egli trova la sua glorificazione proprio quando Giuda esce per avviare il processo della sua crocifissione.

Dicevamo che Dio si dona a chiunque senza condizioni: ha lavato i piedi a tutti i discepoli, si è consegnato a Giuda. Così è disposto a servire tutti: bravi, meno bravi, perfetti e meno perfetti, santi e peccatori. E l’Eucaristia è il sacramento del dono di sé sino alla morte. Gesù non si è isolato dai peccatori per salvare la propria santità. Quando questo tipo di dono, amore per tutti, si manifesta tra i credenti, Gesù è annunciato e riconosciuto nei suoi discepoli. La divisione tra i credenti in Cristo è un’incoerenza che non fa presente Cristo al mondo pagano. La comunione non impone la perfezione, ma chiama e porta alla perfezione. Distinguere e scegliere tra buoni e cattivi, Ebrei e Giudei, poveri e ricchi, santi e peccatori, bianchi e neri…, non è un atto eucaristico e non fa Chiesa. In queste distinzioni non c’è Cristo e non c’è la comunione. Come l’uscita di Giuda dal cenacolo, l’uscita dalla comunione rende vulnerabili e conduce al suicidio (impiccagione di Giuda). Preghiamo per l’unità delle comunità cristiane, preghiere perché le nostre comunità siano luoghi di cultura della fratellanza contro ogni spirito di odio e di individualismo. Buona domenica.

Quarta Domenica di Pasqua /C

Buon pastore e pecore docili

Gv 10,27-30

A cura di don Eric Oswald Fanou

Il Vangelo della quarta domenica di Pasqua ci offre la figura consolante e paradigmatica del Buon Pastore. In questa domenica tradizionalmente dedicata alla preghiera per le vocazioni, il brano offerto alla nostra meditazione illumina la profondità del legame che unisce Gesù al credente, un legame intriso di responsabilità e obbedienza, simboleggiato dalla figura del pastore e del suo gregge. Tre parole chiave dischiudono la natura di questo legame: Ascoltare, conoscere e proteggere.

Per coloro che per primi ascoltarono questo brano evangelico conoscevano intimamente le dinamiche che regolavano la vita del gregge e il rapporto con il suo custode. Sapevano come, al calar della sera, più pastori conducevano le loro greggi in recinti comuni, creando uno spazio protetto dove le pecore potevano riposare al sicuro dalla minaccia dei predatori. Ma era soprattutto al mattino che si manifestava la singolare relazione tra il pastore e le sue pecore. Il pastore si poneva all’ingresso del recinto e chiamava le sue pecore, che rispondevano al suo richiamo e lo seguivano con una fedeltà sorprendente. Questa obbedienza istintiva al proprio pastore, alla sua voce inconfondibile, era un tratto distintivo del rapporto.

È proprio a questa immagine così vivida e familiare che Gesù attinge per rivelare la natura del suo legame con coloro che lo ascoltano e riconoscono in lui il loro Signore. Egli si presenta come colui che conosce le sue pecore, che le chiama per nome e che da esse è riconosciuto e seguito. Questo “ascoltare” che è anche “seguire” non è un atto passivo, ma implica un movimento attivo verso la voce del Pastore, una fiducia totale nella sua guida. Insieme con le loro singolarità, formano un unico gregge (Chiesa) per un unico Pastore.

Gesù sottolinea, per contrasto, l’esistenza di coloro che non lo riconoscono come il loro pastore, che non ascoltano la sua voce e quindi non lo seguono. Questa distinzione evidenzia la libertà intrinseca nella relazione con Dio: la possibilità di accogliere o rifiutare la sua guida amorevole. La natura stessa della pecora, un animale dolce, mite, ma incline a perdersi e a smarrirsi, aggiunge un ulteriore elemento di profondità all’analogia.

Quando una pecora si allontana dal gregge, diventa vulnerabile. Chi si allontana dalla Chiesa diventa vulnerabile. Ma il Buon Pastore non la abbandona al suo destino. Anzi, si fa carico della pecora smarrita, la prende sulle sue spalle e la riporta al sicuro nel recinto, purché essa non si ribelli. Cura premurosa e sollecitudine per chi si è allontanato, è manifestazione potente della misericordia di Dio e della sua instancabile ricerca di ogni singola anima.

Gesù si definisce il “buon pastore” proprio perché, a differenza del mercenario che fugge di fronte al pericolo, egli non esita a dare la propria vita per le sue pecore, per proteggerle. Questa dedizione totale, questo sacrificio supremo, è la misura autentica dell’amore del vero pastore. Egli non si sottrae alla lotta contro i “lupi” che minacciano il suo gregge, ma si pone in prima linea per difenderlo, fino all’estremo sacrificio.

Trasportando questa immagine nella nostra vita, siamo chiamati ad essere come pecore che seguono il Signore, senza la presunzione di indicargli la via o di imporre le nostre logiche. Questo è particolarmente vero nell’ambito delle vocazioni, dove spesso si manifesta la tentazione di voler definire a priori il modo in cui Dio dovrebbe chiamare o guidare. L’atteggiamento fondamentale è quello dell’ascolto docile e fiducioso della sua voce. Allo stesso modo, sull’esempio del Buon Pastore, siamo chiamati ad esercitare la responsabilità nelle nostre vite, nei nostri ruoli familiari, sociali ed ecclesiali, con dedizione e spirito di sacrificio. Come genitori, come educatori, come guide, non siamo chiamati a fuggire di fronte alle difficoltà o ad abbandonare coloro che ci sono affidati, ma ad andare loro incontro, a “combattere” per il loro bene, mettendo a rischio, se necessario, anche il nostro stesso interesse.

In questa domenica del Buon Pastore, siamo dunque invitati a rinnovare la nostra sequela di Cristo, ascoltando la sua voce, riconoscendolo come unica guida e modello, e imitando il suo amore sacrificale nel prenderci cura degli altri. La preghiera per le vocazioni diventa allora un’invocazione affinché il Signore susciti nel cuore di molti la disponibilità a farsi pastori secondo il suo cuore, pronti a dare la vita per il loro gregge, pronti ad avere “la mano che sente l’odore della pecora”. Buona domenica, buona festa alle mamme e a chi fa opera di mamma.

3a Domenica di Pasqua/C

Chiesa e scisma a pezzi

Gv 21,1-19

A cura di Don Eric Oswald Fanou
Nel Vangelo odierno, sei discepoli, insieme a Simone Pietro, decisero di andare a pescare. Dopo una notte di pesca infruttuosa, Gesù apparve loro e chiese di gettare la rete dalla parte destra. Rimasero sorpresi dalla quantità di pesci presi e lo riconobbero. Poi Gesù, dopo tre domande a Pietro sull’amore, gli affidò il proprio gregge. Dall’amore per il Risorto dipende l’esistenza della Chiesa.

I discepoli, dopo aver visto le prime apparizioni del Risorto, cominciano a risorgere dai dolori dei giorni precedenti, anche dalla paura dei nemici di Cristo. Pian piano nasce in loro anche il desiderio di ritornare alle proprie attività, dalle quali Gesù li aveva chiamati. Vogliono riprendere la vita di prima, là dove si era fermata dopo l’incontro con Cristo. Pietro decise di ritornare alla pesca e alcuni discepoli lo seguirono. Per loro, è bello che Gesù sia risorto, è bella la loro speranza di risorgere dai morti, ma il futuro concreto non era più chiaro con l’assenza fisica del Maestro.

Dopo la guarigione da un incubo, da un trauma, il primo atteggiamento, l’istinto umano, porta a rifuggire ciò che ha causato il dolore. I discepoli non sembravano intenzionati a proseguire, almeno insieme, l’opera di Gesù. Pietro dice: “Vado a pescare”, i discepoli di Emmaus se ne andavano, ognuno cominciava a riorganizzare la propria vita. Così Gesù moriva una seconda volta, di una morte più drammatica della prima, in quanto sarebbe svanita la memoria di Lui.

Ancora una volta Gesù viene incontro ai discepoli per ricordare loro il senso della loro chiamata, cioè fare di loro pescatori di uomini. Non proibisce loro di pescare pesci, ma tutto deve essere inserito nel progetto di Cristo di instaurare il regno di Dio, di radunare un gregge per il Padre. Uomini e donne in comunione con Cristo, e dunque in comunione tra di loro: ecco ciò che rende il Risorto ancora vivo nel mondo. Ed è questa la vera Chiesa, mistero di comunione. Lo scisma a pezzi non edifica la Chiesa. Proprio nell’attività di pesca il Risorto riconsegna il suo gregge al pescatore Pietro. Così rende l’uomo non solo cooperatore alla sua missione, ma anche cooperatore alla guida del popolo di Dio con ciò che è e con ciò che ha.

Quando Cristo viene meno nella nostra comunione, non c’è più Chiesa. In questi giorni di attesa per l’elezione di un nuovo successore di Pietro, preghiamo perché sia una persona che ama Cristo e il suo gregge. Che sia una persona libera dai condizionamenti di origine, di cultura, di potere e dei mass media, ma che sia una persona prigioniera dell’amore per Cristo. Buona domenica.

2a Domenica di Pasqua/C

La pace al deluso scettico

Gv 20, 19-31

A cura di don Eric Oswald Fanou

Ieri a Roma, è stato celebrato il funerale di Papa Francesco, grande apostolo della misericordia di Dio. In questa domenica, la Chiesa ricorda in modo particolare la Misericordia di Dio. Nel Vangelo, Gesù appare ai discepoli, dona loro la sua pace e li manda con la forza dello Spirito a portare la pace alle persone di buona volontà, come egli stesso la portò a Tommaso. Il Signore va incontro agli affamati di pace e di verità.

Nel Vangelo odierno, ciò che attira prevalentemente l’attenzione è la vicenda di Tommaso. E questo perché ci sentiamo anche noi più vicini a Tommaso nella sua fatica a credere alla testimonianza degli altri sul Risorto. Non siamo immuni dai dubbi che, purtroppo, vengono alimentati dagli esempi di incoerenza nella vita degli eminenti seguaci di Cristo: incoerenza dell’ipocrisia, ma anche l’incoerenza di vivere come se Cristo non fosse risorto, come se il sepolcro fosse la fine di tutto, come se la misericordia di Dio non fosse vera.

Nel Vangelo, Tommaso non mi pare l’unico dubbioso. Tutti erano ancora chiusi per paura, nonostante avessero sentito la testimonianza delle donne recatesi alla tomba alla prima ora dello stesso giorno. Hanno sentito probabilmente la testimonianza del discepolo amato che vide e credette. Eppure, insieme a Tommaso, molti di loro non credevano ancora. Tutti, tranne Tommaso assente, gioirono dopo aver visto le mani e il fianco del Risorto. La testimonianza degli altri non è bastata a convincere Tommaso. Era troppo bello per essere vero o era talmente deluso che non gli sembrava possibile.

Comunque, Tommaso sembra una persona sincera. Non si lascia trascinare dal pensiero di gruppo. Non fonda la propria valutazione solo su ciò che dicono gli altri. Voleva anche lui fare la propria esperienza del Risorto. Penso che sia saggio, invece di fidarsi facilmente delle chiacchiere, fare la propria esperienza delle persone che stimiamo meno o oggetto di chiacchiere, oppure almeno concedere a tali persone la presunzione caritatevole d’innocenza. Per quanto riguarda Tommaso, Gesù stesso gli venne incontro.

Nonostante il suo dubbio, Tommaso non diventa ribelle, non si allontana dalla comunità nascente. Non impone il suo dubbio agli altri, rispetta la loro fede nel Risorto. Tommaso mi sembra una persona di buona volontà, una volontà assetata della verità. A Tommaso, Gesù provvede alla sua richiesta di vedere le mani e di mettere il dito nel suo fianco. E Tommaso subito passa dal dubbio alla professione di fede. Ci si potrebbe domandare perché il Risorto non fece dono delle apparizioni anche ai sommi sacerdoti o a Pilato perché si convertissero anch’essi.

Le persone più colpite dalla morte cruenta di Gesù sono i discepoli. Le apparizioni sono per loro sorgente di pace, di riconciliazione con la fede e forza per portare avanti la testimonianza. Il racconto delle fatiche dei discepoli a credere va incontro alla nostra fatica a credere. L’obiettivo di questi racconti è di togliere ogni dubbio e fare della risurrezione una certezza, non una chiacchiera. Ora c’è tutto ciò che serve per credere. E Gesù va sempre incontro alle persone di buona volontà in cerca della verità. In Lui trovano la pace. Che il Signore ci colmi della sua pace. Buona Domenica della Misericordia.

Pasqua 2025

La fede oltre il sepolcro

Gv 20,1-9

A cura di don Eric Oswald Fanou
Dalla celebrazione della notte pasquale, abbiamo iniziato a percepire le prime testimonianze che conducono alla conclusione che Gesù è risorto dai morti. Nel brano di Giovanni offerto alla nostra meditazione, la prima testimonianza narra il passaggio dalla disperazione di Maria di Magdala alla fede del discepolo amato. Lei credeva nel trafugamento del corpo di Cristo e Giovanni, nel sepolcro, confessa la fede nella risurrezione. Nell’oscurità più profonda, per il credente, emergono segni che guidano verso la luce.
Alle prime ore dopo il sabato sacro dei Giudei, Maria di Magdala, donna dalla quale Gesù aveva scacciato sette demoni, si recò al sepolcro dove era stato deposto Gesù. L’osservanza del sabato non le aveva permesso di andarci prima. Si può immaginare la sua impazienza di raggiungere il luogo per ungere il corpo di Gesù con gli aromi. Amava profondamente Gesù, lo aveva seguito fino alla crocifissione e continuava ad amarlo anche quando tutto sembrava perduto. L’affetto di Maria di Magdala per Gesù non era motivato dal timore di perdere il paradiso. Non considerava ancora l’eventuale risurrezione di Cristo, tanto che la rimozione della pietra dal sepolcro la portò a pensare al furto della sua salma. Il suo era un amore riconoscente e gratuito.
L’amore riconoscente e gratuito non avanza pretese prima di manifestarsi pienamente. Questo tipo di amore non attende in cambio una soddisfazione personale; al contrario, trova appagamento nel semplice atto di amare. Così, neanche la vista del sepolcro, luogo che ci si aspetterebbe saturo di putrefazione, altera questo amore. Maria di Magdala sarebbe stata riconoscente non solo per la liberazione dai sette demoni che la tormentavano, ma anche per la nuova prospettiva di vita che Gesù le aveva comunicato. Questa nuova visione e l’amore per Cristo le diedero il coraggio di superare la paura del buio e dei nemici di Cristo, per recarsi al sepolcro nella speranza di trovarvi il corpo del Signore. Tuttavia, il ricordo della crudeltà subita dal suo Signore era ancora vivo nella sua memoria. Ogni movimento insolito appariva come un nuovo accanimento. Vedendo la pietra spostata, ella concluse: 《Hanno portato via il Signore!》.
Se davvero avessero portato via il Signore, quest’ulteriore beffa crudele sarebbe stata devastante. La paura, la tristezza, l’angoscia della morte avrebbero finalmente trionfato e tutto sarebbe finito. Cristo e il suo insegnamento sarebbero stati relegati nel sepolcro. Invece, nella morte più drammatica, in una vita che odora di morte e del fetore del sepolcro, in una sofferenza inspiegabile, per il credente sussistono sempre segni di vittoria. Come Giovanni, che l’amore del Signore ci aiuti a discernere questi segni. Nessuno sottrae il Signore dai sepolcri dell’umanità. Non permettiamo alla disperazione di portarci via il Signore. Non lasciamo che i nemici di Cristo, esterni ed interni alle nostre comunità, ci strappino la gioia di credere. Ci assista il Signore affinché la nostra testimonianza non sottragga la gioia della risurrezione a chi non crede o fatica a credere. Buona Pasqua.

Domenica delle Palme/C

L’altra faccia della Passione

Lc 22,14-23,56

A cura di don Eric Oswald Fanou

In questa domenica leggiamo la Passione di Cristo secondo san Luca, cioè gli eventi che segnano la sua vita dall’ingresso a Gerusalemme fino alla crocifissione. La Passione fa pensare subito al dolore patito da Gesù per la nostra salvezza. Mentre il suo dolore ci rattrista, la salvezza da lui compiuta ci riempie di gioiosa speranza. Fermiamoci sulla faccia gioiosa della Passione di Cristo.

Nel racconto del Vangelo, Gesù mostra che nessuno gli toglie la sua vita. I fatti non si svolgono secondo il volere degli scribi, dei farisei e del sommo sacerdote. Loro credevano di arrestare un delinquente, un falso profeta che creava zizzania in mezzo al popolo. Credevano di aver condotto gli eventi sotto il loro controllo. Invece Gesù mostra di aver consegnato liberamente la propria vita alla morte. Lo dimostrano tutte le volte che non sono riusciti a mettergli le mani addosso e il dire del Vangelo che non era ancora la sua ora. Egli stesso lo dice nella Passione: 《Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è la vostra ora.》 Essendo una scelta libera, continua ad essere buono nei confronti dei suoi detrattori.

In pieno arresto, quando scaturisce l’impeto di uno dei suoi seguaci che colpisce il servo del sommo sacerdote tagliandogli l’orecchio, Gesù lo guarisce. In tutto ciò che ha patito, la sua bontà non è mai venuta meno. Senza nulla togliere al dolore, tutto fu già deciso nella scelta di salvare gli uomini. Né l’avvertimento del tradimento di Giuda e di Pietro, né l’abbandono dei suoi amici più stretti, né le lacrime di sua madre e dei parenti hanno fermato questa scelta. Scelta non facile, come lo esprime nel grido al Padre, ma rimasta immutabile per salvare tutti, compresi sua madre, i suoi fratelli, i suoi amici… Ecco. Siamo di fronte a un Dio che, prima della Passione, è appassionato d’amore per l’uomo. Che ci dia la grazia di considerare seriamente la sua passione per noi. Buona domenica delle Palme (Ulivi).

5ª Domenica di Quaresima/C

Guarire dal tradimento

Gv 8,1-11

A cura di Don Eric Oswald Fanou

Il Vangelo di questa domenica ci conduce dal Monte degli Ulivi al tempio, dove Gesù era solito insegnare al popolo. Lì, nel tempio, gli fu presentato un caso irrefutabile di adulterio, chiedendo il suo giudizio in confronto con la giurisdizione mosaica. La risposta di Gesù introduce elementi correttivi alla legge di Mosè, con conseguenze benefiche per tutti. Per estirpare il male dalla società occorre iniziare dal proprio cuore.

Ricordiamo brevemente il contesto, il clima in cui la donna adultera fu condotta da Gesù. Come accadeva spesso, Gesù insegnava nel tempio. È risaputo che i suoi insegnamenti sovente non erano in linea con quanto insegnavano i Farisei e gli Scribi, che sedevano sulla cattedra di Mosè. Spesso sentiamo Gesù affermare: “Vi è stato detto, ma io vi dico…”. Oppure compiva guarigioni anche di sabato. Il suo era, dunque, un insegnamento molto scomodo per questi dottori della legge, che non riuscivano a coglierlo in fallo. Con la precisa intenzione di metterlo in difficoltà e indebolirne l’autorità, gli presentarono un caso spinoso per tendergli un tranello.

A Gesù viene presentata una donna colta addirittura in flagrante adulterio. Mosè aveva stabilito: 《Se un uomo verrà trovato a giacere con una donna maritata, moriranno tutti e due, l’uomo che ha giaciuto con la donna e la donna. Così toglierai il male da Israele》(Dt 22,22). Citando parzialmente quest’ordinanza di Mosè, omettendo l’uomo adultero, chiedono il giudizio di Gesù sul fatto. Pensavano di porre due alternative promettenti per il loro scopo malvagio: Infatti, consegnare la donna alla lapidazione significava arrogarsi una prerogativa riservata all’autorità romana, l’unica che poteva sentenziare a morte. Opporsi alla lapidazione significava sconfessare Mosè, cosa intollerabile per il popolo. In più, come anche oggi, l’adulterio, il tradimento, era considerato una delle colpe imperdonabili. Il tradito o la tradita subisce una ferita profonda nell’anima, tanto da desiderare, sul momento, di non esistere più o sorgere la furia della vendetta. La fiducia nel coniuge crolla e molte unioni coniugali per questo motivo vanno in frantumi a scapito dei figli, e di tutto quanto costruito prima. Non a caso fu un caso privilegiato da porre a Gesù.

Davanti a uno scenario così difficile, Gesù propone una via di giustizia: mettersi nei panni del colpevole. Se fossi io l’adultero, quale correzione desidererei? La condanna a morte? Oppure essere risollevato e aiutato? Le ferite del tradimento, o delle offese umanamente imperdonabili, vengono superate solo con grande affetto, umiltà e trasparenza dall’offensore, poi dall’esercizio della misericordia dall’offeso. C’è più da guadagnare con la riconciliazione che con la rottura. In questo caso deve vincere l’amore, non il dolore. Il Signore si è consegnato a noi proprio nel nostro tradimento. Egli stesso ci aiuti quando il dolore dell’offesa offusca la nostra mente. Buona domenica.