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XXVII Domenica del Tempo Ordinario /C

Servi inutili

Lc 17,5-10

A cura di don Eric Oswald Fanou

Nel Vangelo di questa domenica, al desiderio degli Apostoli di crescere nella fede, Gesù risponde con un invito al servizio gratuito senza sperare nessuna gratificazione: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare». È servo inutile chi trova la sua gioia nel rendere gli altri felici con il proprio servizio.

Questa espressione di servi inutili, suona in realtà come un profondo invito ad accogliere il servizio come una grande grazia. È il Signore che ci fa l’onore di renderci cooperatori delle Sue opere, strumenti nelle Sue mani per la diffusione del bene. Questo è una grazia inestimabile!

La consapevolezza di essere noi i beneficiari di questo onore ci predispone naturalmente alla gratitudine verso Dio. Quando il nostro cuore è colmo di questa gratitudine, non abbiamo più bisogno di aspettare la riconoscenza degli altri per essere felici. Certo, il ringraziamento fa piacere, ma un’eccessiva tristezza per la sua mancanza non è del tutto sana.

Questa reazione smodata potrebbe infatti nascondere la violenza di un orgoglio in cerca di soddisfazione. Quando cerchiamo ossessivamente la gratitudine altrui, il rischio è di non servire più il prossimo per amore di Dio, ma per amore di sé stessi, per soddisfare il bisogno del “m’as-tu vu” (del voler apparire).

Che per l’intercessione della Beata Vergine Maria, il Signore ci conceda la profonda e serena gioia del servizio inutile, fatto solo per l’amore Suo e per la gloria del Suo Regno. Buona domenica.

XXVI Domenica tempo ordinario /C

L’Inferno dell’Indifferenza

Lc 16,19-31

A cura di don Eric Oswald Fanou

Una volta ancora, il Vangelo ci mette di fronte alla figura di un uomo ricco. Se la scorsa settimana abbiamo riflettuto sulla parabola dell’amministratore disonesto, oggi la scena è ancora più cruda e diretta: l’uomo ricco che banchettava splendidamente ogni giorno, e alla sua porta, il povero Lazzaro, coperto di piaghe e desideroso solo delle briciole che cadevano dalla sua tavola. L’abitudine alla sofferenza crea abisso di separazione.

Il Vangelo è straordinariamente laconico su come i due siano giunti alle loro condizioni. Non ci viene detto come il ricco abbia accumulato le sue fortune – forse con onesto e duro lavoro. Non sappiamo perché Lazzaro fosse nella miseria – forse sfortunato, malato, o vittima delle circostanze. Il punto cruciale non è l’origine della ricchezza o della povertà. Il punto è la distanza che separa l’uno dall’altro.

Potremmo dire che Lazzaro, sebbene fosse misero di beni materiali, era ricco di una profonda dignità e, possiamo immaginarlo, di amore, nella sua sofferenza.
Il vero misero, era l’uomo ricco. Non a causa dei suoi banchetti, ma per la sua cecità. Si era abituato alla sofferenza di Lazzaro. La sua presenza, il suo dolore, le sue piaghe, erano diventati un elemento del paesaggio, un rumore di fondo della sua vita agiata. Per lui, Lazzaro non era un fratello, non era una persona da aiutare, ma solo un servitore potenziale per eseguire ordini (“Manda Lazzaro…” dice il ricco dall’aldilà). Questa è la trappola più subdola per tutti noi: l’abitudine alla sofferenza degli altri.

L’abitudine ammazza la fantasia di un cuore che pure vorrebbe commuoversi davanti al dolore. Quando vediamo troppe volte la stessa ingiustizia, lo stesso degrado, la stessa miseria – nel mondo, nella nostra città, persino nella nostra famiglia – corriamo il rischio di chiudere gli occhi. L’attenzione diventa inesistente. Diventa per noi accettabile che esista chi vive senza dignità. Ma Dio ci ricorda che tutti abbiamo diritto alla felicità, ad una vita degna, non solo della nostra. Non possiamo lavarci le mani e dire: “Sono affari suoi”.

In questa settimana di festa e sagra per il nostro patrono, San Luigi Gonzaga, troviamo un faro. San Luigi era un uomo nato ricco, destinato alla corte e alla grandezza del mondo. Eppure, ha rinunciato a tutto ciò che era suo di diritto per dedicare la sua vita agli emarginati e agli ultimi, specialmente agli ammalati di peste. San Luigi ha scelto di non abituarsi alla sofferenza. Ha scelto di vedere e di agire, trasformando la sua ricchezza di nascita in una ricchezza di servizio e di amore. La sua grandezza non è stata nel ricevere onori, ma nell’attenzione che ha dato a chi non ne aveva.

L’insensibilità a ciò che è male, l’indifferenza che permette alla miseria di esistere indisturbata alla nostra porta, è già l’inferno. L’inferno non è solo fuoco e tormento, ma è la condizione di chi è totalmente separato dall’amore e dalla compassione.

Chiediamo oggi la grazia di Dio: che ci doni un cuore nuovo, un cuore che si commuove e che si indigna di fronte all’ingiustizia. Ci aiuti a superare la nostra indifferenza e a impegnarci concretamente, come San Luigi, per la felicità collettiva, dove nessuno sia più costretto a desiderare solo le briciole della nostra tavola. Amen. Buona domenica e buona festa di San Luigi.

Dal 26 al 29 Settembre 2025

Sagra di San Luigi Gonzaga

San Giorgio di Piano

Celebrazioni
Spettacoli musicali
Intrattenimento
Stand gastronomici (ristorante, fritti e senza glutine)
Incontri
Mostre
Pesca di beneficenza
Espositori

In allegato

  • Manifesto
  • Libretto della festa con il programma completo

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XXV Domenica tempo ordinario /C

Dall’abuso di fiducia alla saggezza

Lc 16,1-13

A cura di don Eric Oswald Fanou

Nel Vangelo di questa domenica, la parabola dell’amministratore disonesto, tratta dal Vangelo di Luca (16,1-13), è una delle lezioni più sconcertanti di Gesù. Non loda la disonestà, ma ci invita a riflettere sulla natura della fiducia, sulla gestione delle nostre vite e sulla nostra lungimiranza di fronte all’eternità. La parabola è una storia di tradimento, ma anche un appello all’azione.

L’uomo ricco aveva affidato l’amministrazione dei suoi beni a un gestore che ha abusato della sua posizione. I reclami dei debitori, che forse si erano trovati di fronte a un aumento dei prezzi per il profitto dell’amministratore, rivelano una profonda ingiustizia. Non si tratta solo di un furto, ma di un tradimento della fiducia del padrone e di un allontanamento dei clienti.

Questa situazione ci interpella direttamente. Nella nostra vita, Dio ci ha affidato un’immensa ricchezza: la nostra esistenza, il nostro tempo, i nostri talenti e tutte le nostre risorse. Il più grande tradimento della fiducia nei confronti del Signore è gestire questa vita come se ci appartenesse, come se fossimo i nostri “padroni”. Un’eccessiva preoccupazione per sé stessi, che dimentica di rendere grazie, è un abuso di questa fiducia divina. Siamo amministratori, non proprietari.

Quando l’amministratore viene denunciato, la sua reazione è sorprendente: non fugge, agisce. Usa il suo potere residuo per farsi degli amici annullando una parte dei debiti del suo padrone. È la saggezza di questo gesto che viene lodata dall’uomo ricco, e non la sua disonestà. L’amministratore ha capito che la sua posizione era temporanea. Ha agito con una determinazione e un’urgenza che forse non avrebbe avuto se avesse creduto che il suo potere fosse eterno.

L’amministratore ha compreso di essere un “povero amministratore” la cui gestione poteva essergli tolta in qualsiasi momento. Ha quindi usato le ricchezze passeggere per prepararsi un futuro. La lezione è chiara: se un uomo senza fede è capace di tanta lungimiranza per il suo futuro terreno, quanto più non dovremmo noi dimostrare la stessa saggezza per il nostro futuro spirituale?

Gesù ci esorta a farci amici con le “ricchezze ingiuste” o “il denaro corrotto”. Il Signore non ci invita a essere disonesti, ma a usare i beni di questo mondo — il nostro tempo, i nostri soldi, le nostre competenze — per opere di bene e di carità. Gli amici che ci facciamo aiutando i poveri, gli emarginati o dimostrando misericordia, sono quelli che, quando la nostra vita terrena giungerà al termine, potranno accoglierci nel Regno eterno.

Infine, la parabola ci ricorda che tutto ci è affidato da Dio. L’unica gestione veramente saggia è quella che riconosce la natura effimera di questo mondo e che orienta tutte le nostre azioni verso l’eterno. Dobbiamo essere amministratori fedeli e saggi, non per il nostro tornaconto, ma per servire il Signore e i nostri fratelli, poiché è così che costruiamo il nostro posto nella casa del Padre. Che Egli ce ne dia la forza. Amen.

17a domenica del tempo ordinario /c

La Preghiera: Dialogo e fiducia

Lc 11,1-13

A cura di don Eric Oswald Fanou

L’odierno Vangelo di Luca (11,1-13) ci immerge in un momento intimo e profondo: gli apostoli chiedono a Gesù di insegnare loro a pregare. Non si tratta di una curiosità passeggera, ma di un desiderio autentico di entrare più a fondo nel mistero della relazione con Dio, avendolo visto pregare e riconoscendo in lui una connessione unica con il Padre. Gesù risponde donandoci una gemma preziosa: il Padre Nostro, la preghiera per eccellenza, e poi la parabola dell’amico importuno. Si capisce che la preghiera è dialogo nella continua fiducia.

La richiesta degli apostoli ci ricorda che la preghiera non è un semplice monologo, una lista di richieste da presentare a un Dio lontano. È prima di tutto un dialogo. Un dialogo che nasce dal desiderio di stare con Colui che ci ha creati e ci ama immensamente. È un mettersi in ascolto, un aprire il cuore, un condividere le gioie e le fatiche della nostra vita. Ma è anche e soprattutto un atto di fiducia. Quando preghiamo, noi ci affidiamo completamente a Dio. Riconosciamo la nostra piccolezza e la Sua grandezza, la nostra limitatezza e la Sua onnipotenza. E lo facciamo con la certezza che Egli ascolta, che Egli si prende cura di noi, e che la Sua risposta, anche se non sempre quella che ci aspettiamo, sarà sempre per il nostro vero bene.

La parabola dell’amico importuno, che bussa a mezzanotte con insistenza, sottolinea proprio questo: l’importanza di una preghiera perseverante, fiduciosa, che non si arrende di fronte al silenzio apparente, ma che confida nella bontà di Dio, infinitamente più grande di quella di qualsiasi amico terreno. Se un amico, pur riluttante, cede all’insistenza, quanto più il Padre Celeste esaudirà i suoi figli che lo cercano con cuore sincero!

E qui veniamo al cuore dell’insegnamento di Gesù: chiamare Dio “Padre”. Questa parola non è un titolo formale, è una rivelazione profonda. Chiamare Dio Padre significa riconoscere la nostra figliolanza divina, il nostro legame intimo e indissolubile con Lui. Ma se Dio è Padre di tutti, allora siamo chiamati a riconoscere di essere fratelli e sorelle di tutte le altre creature. Questo include, sì, l’intera famiglia umana, al di là di ogni differenza di etnia, cultura o religione. Siamo tutti figli dello stesso Padre, e questo ci impegna a costruire ponti, a superare divisioni, a vivere la carità e la solidarietà reciproca. E non solo. Questa paternità divina si estende a tutta la creazione. Chiamare Dio Padre ci porta a comprendere che siamo parte di un’unica grande famiglia che comprende anche le creature animali e vegetali, l’intero cosmo. Siamo custodi, non padroni, di questa meravigliosa casa comune. Riconoscere Dio come Padre ci spinge a guardare con rispetto e amore a ogni forma di vita, a prenderci cura del creato che ci è stato affidato, a vivere in armonia con esso, riconoscendo in ogni creatura un riflesso della bontà del nostro Creatore.

La preghiera, dunque, non è un atto isolato, ma un modo di stare nel mondo, una lente attraverso cui guardare la realtà. Pregare è dialogare con Dio, è fidarsi ciecamente di Lui, ed è riconoscere che la nostra famiglia è infinitamente più grande di quanto possiamo immaginare, abbracciando ogni essere vivente. Che la nostra preghiera diventi sempre più autentica, nutrita dalla fiducia e animata da questo profondo senso di fraternità universale.

 Questa condivisione si ferma per motivi di ferie. Riprendiamo in settembre a Dio piacendo. Buona domenica. Buone ferie.

16ma Domenica del Tempo Ordinario /C

Ospitalità del Signore e serenità

Lc 10,38-42

A cura di Don Eric Oswald Fanou
Il Vangelo di questa domenica ci introduce in una scena familiare che vede protagonisti Gesù e due sorelle, Marta e Maria. Mentre Marta, la sorella maggiore, si affannava per offrire a Gesù la migliore accoglienza possibile, Maria, seduta ai piedi del Signore, si dedicava all’ascolto della Sua parola. Vedendo ciò, Marta manifesta il suo disappunto, interpellando direttamente Gesù, quasi rimproverando la sua apparente indifferenza. La risposta di Gesù è un insegnamento profondo sulla necessità di saper considerare non solo i propri bisogni, ma anche quelli degli altri.
Gesù, distaccatosi dai suoi discepoli, entra nella casa di Marta e Maria, un luogo che sembra essergli molto familiare. Il racconto non menziona la compagnia di Gesù – i discepoli che erano in cammino con Lui – perché l’attenzione si concentra su un episodio particolare avvenuto durante la sua accoglienza. Marta era assorta in molteplici servizi, mentre sua sorella Maria, seduta ai piedi di Gesù, lo ascoltava attentamente. Il comportamento di Maria infastidisce Marta, che interpella la coscienza di Gesù, il quale, ai suoi occhi, era pur sempre un maestro religioso. A questa interpellanza, Gesù sembra prendere le parti di Maria, affermando che ella “ha scelto la parte migliore”. Certamente, Gesù non ha condannato Marta; anzi, Egli non condanna nessuno, non guarda nessuno con il peso dei suoi errori. Ma in Marta è scaturito un dolore profondo. Un dolore dovuto al fatto che Maria non si è mostrata sensibile al suo bisogno di essere aiutata. Questo sentimento si esprime nel rimprovero rivolto a Gesù stesso: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti!”. Invece di esprimere il suo bisogno in modo sereno, Marta esterna la “violenza” scaturita in lei. Era diventata agitata, non si possedeva più. Essere agitata in questo modo non è certo opera dello Spirito Santo, e Gesù glielo fa notare con delicatezza: “Ti affanni e ti agiti per molte cose”.
Marta, nel suo dolore, ha smesso di considerare il bisogno dell’ospite, Gesù: il bisogno di avere compagnia in attesa del pasto, il bisogno di un momento di quiete e condivisione. Marta ha messo al primo posto il proprio bisogno, dimenticando quello dell’altro. In situazioni di disagio, anche quando siamo convinti di avere ragione, per avere una visione equilibrata è fondamentale considerare anche i bisogni degli altri. A volte non riusciamo a esprimere ciò che ci manca e a chiedere umilmente aiuto. E così, sprechiamo le nostre energie puntando il dito su ciò che riteniamo sia la mancanza degli altri, causa della nostra infelicità.
La “parte migliore” di Maria, lungi dal trascurare la sorella, è stata l’essere quel “sale” che, se fosse mancato, avrebbe reso meno autentica e bella l’ospitalità di Gesù, in una cultura dove l’accoglienza è sacra. La parte migliore è accogliere la serenità che il Signore porta nei nostri cuori e nelle nostre dimore. Dio non porta agitazioni, ma serenità, anche nelle prove più difficili.
Che questa Eucaristia sia per noi un sollievo nei dolori e negli affanni. Buona domenica.

15 domenica del Tempo Ordinario /C

Uomo dal cuore d’oro

Lc 10,25-37

A cura di don Eric Oswald Fanou
Il Vangelo di questa domenica racconta un dialogo tra Gesù e un malizioso dottore della Legge. Quest’ultimo voleva sapere ciò che deve fare per meritare la vita eterna. Volendo sempre trovare un motivo di accusare Gesù, Gli chiese di chiarire la nozione del prossimo. Gesù con la parabola del buon Samaritano invita il dottore della legge a coltivare la bontà di cuore. La legge senza la compassione uccide.
Gesù non si limita a definire il prossimo, ma lo incarna. Il Samaritano, un estraneo, addirittura un nemico secondo la mentalità comune, è colui che vede il bisogno, si commuove e agisce. Non chiede chi sia l’uomo ferito, quale sia la sua religione o la sua provenienza. Vede solo un essere umano in difficoltà e si fa prossimo. Questo è il cuore del messaggio: non è questione di definizioni legali o cavilli teologici, ma di una disponibilità interiore a vedere e a servire chiunque incontriamo nel bisogno.
È importante sottolineare che la domanda del dottore della Legge non era mossa tanto dalla preoccupazione di ereditare la vita eterna, quanto dal desiderio di mettere alla prova Gesù, di trovare un pretesto per sconfessarlo e screditare il suo insegnamento. Questo rende ancora più potente la risposta di Gesù, che non cade nella trappola ma eleva il discorso a un livello superiore, quello della compassione.
I Samaritani, all’epoca, erano considerati degli eretici, separati dal popolo ebraico e disprezzati. Eppure, è proprio un Samaritano a mostrare la vera carità. Il sacerdote e il levita, figure religiose rispettate, passano oltre. Forse, come suggerito, non potevano toccare un morto o il sangue per non incorrere in impurità rituale. Potrebbe darsi che abbiano osservato la legge alla lettera, ma nel farlo, hanno perso di vista il cuore della legge stessa: l’amore.
Gesù ci invita proprio a uscire dalla “legge per legge”, da un’osservanza sterile che non è animata dal cuore. Quanto ci piace stare con persone che hanno un cuore buono, un “cuore d’oro”! Si dice di loro che sono persone buone, e il Samaritano ha mostrato proprio un cuore compassionevole. Siamo invitati a diventare noi stessi un cuore compassionevole, come per fare un esempio, quelle persone che, rischiando la propria vita, nascondevano gli ebrei dalla cattiveria nazista, dimostrando un’umanità straordinaria. Il cuore che non si commuove davanti alla sofferenza sta morendo. Verso di noi Dio è infinitamente compassionevole, e in noi vuole continuare a manifestare la sua compassione, rendendoci strumenti del suo amore nel mondo. Che lo Spirito ci illumini alla comprensione della compassione di Dio.

14a Domenica del Tempo Ordinario /C

La Messe della Salvezza

Lc 10,1-12.17-20

A cura di don Eric Oswald Fanou
Nel Vangelo di questa domenica, Gesù invia altri settantadue dei suoi discepoli alla ricerca di nuovi operai per la sua messe. Le indicazioni per questa missione sono chiare: la preghiera, la fiducia nella provvidenza, il portare la pace, il rispetto della libertà individuale e la gioia di essere già operai della messe. Alla sua messe, il Signore non offre altro che sé stesso. È per questo che, alla messe del Signore, gli operai saranno sempre pochi.
Nel contesto della vita contadina, l’immagine della messe, specialmente quando è abbondante oltre le aspettative, evoca un momento di impegno gioioso. Non è così, però, al momento della semina. Il Salmo 125, infatti, recita: “Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni” (Sal 125,6). La messe è il tempo della raccolta. In Gesù, il tempo è maturato per la nostra piena salvezza; è Lui la pienezza del tempo (cfr. Gal 4,6). Egli chiama tutti a prendere parte alla gioia della salvezza.
Per radunare i popoli alla messe della salvezza, il Signore non si stanca mai. “La gloria di Dio è l’uomo vivente”, afferma Sant’Ireneo. La sua gloria consiste nel liberare l’uomo da tutto ciò che gli sottrae la pace. Nel Vangelo, manda i settantadue discepoli in tutto il mondo. Alcuni vedono nel numero 72 proprio il desiderio di raggiungere l’universo intero. Come viene detto a questi discepoli (rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli), anche noi dovremmo essere felici e ringraziare Dio per aver compreso e accolto la sua salvezza. E con il suo aiuto, andiamo cercare coloro che sono ancora lontani.
In questo impegno missionario, non serve altro che comunicare la gioia della riconciliazione di Dio con l’uomo in Cristo. L’Apostolo afferma che Cristo è la nostra pace. Ecco la pace da portare, senza alcuna imposizione che questa pace debba essere accettata, ma rispettando la libertà di coloro che non sono ancora pronti per la messe del Signore. Che il Signore ci conceda la grazia di accogliere la sua pace e di contagiare il mondo con la sua pace che dimora in noi. Buona domenica!